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mercoledì 16 marzo 2011

CAUSE DELLA PAURA DELLA MORTE


- L’uomo che abbia superato la condizione di selvaggio, su qualunque
gradino della scala si trovi, ha il sentimento innato dell’avvenire; l’intuizione
gli dice che la morte non è l’ultima parola dell’esistenza, e che coloro che
piangiamo non sono perduti per sempre. La fede nell’avvenire è intuitiva, e
infinitamente più diffusa della credenza nel nulla. Come avviene allora che,
tra quanti credono nell’immortalità dell’anima, si trova ancora un
attaccamento così forte alle cose terrene, e una paura così grande della
morte?
2 - La paura della morte è un effetto della saggezza della Provvidenza e una
conseguenza dell’istinto di conservazione comune a tutti gli esseri viventi. E’
necessaria, finché l’uomo non è illuminato a sufficienza sulle condizioni della
vita futura, quale contrappeso alla tendenza che, senza tale freno, lo
porterebbe ad abbandonare prematuramente la vita terrestre e a trascurare
l’attività di quaggiù, che deve servire al suo avanzamento.
Per questa ragione, nei popoli primitivi l’avvenire è soltanto un’intuizione
vaga, poi una semplice speranza, e infine, più tardi, una certezza, ma sempre
controbilanciata da un segreto attaccamento all’esistenza corporea.
3 - Quando l’uomo comprende meglio la vita futura, la paura della morte
diminuisce: ma nello stesso tempo, comprendendo meglio la sua missione
terrena, egli attende la fine con calma maggiore, con rassegnazione e senza
timore. La certezza della vita futura dà un nuovo corso alle sue idee, un altro
scopo alla sua attività; prima di avere questa certezza, lavora per l’avvenire
senza trascurare il presente, poiché sa che il suo avvenire dipende dalla
direzione più o meno buona che egli dà al presente. La certezza di ritrovare
dopo la morte i suoi cari, di continuare i rapporti che ha avuto sulla terra, di
non perdere il frutto del suo lavoro, di crescere incessantemente in
intelligenza e in perfezione, gli dà la pazienza di attendere e di sopportare le
fatiche momentanee della vita terrena.
La solidarietà che egli vede stabilirsi tra i morti e i vivi gli fa comprendere
quella che dovrebbe esistere tra i vivi; la fratellanza ha allora una ragione di
essere e la carità ha uno scopo nel presente e nell’avvenire.
4 - Per liberarsi dalla paura della morte, bisogna vederla nella sua vera
prospettiva; bisogna cioè essere penetrati, con il pensiero, nel mondo
spirituale, ed essersene fatta un’idea il più possibile esatta: il che, nello Spirito
incarnato, denota un certo sviluppo e una certa attitudine a liberarsi dalla
materia. In quanti non sono ancora sufficientemente progrediti, la vita
materiale ha ancora la meglio sulla vita spirituale.
L’uomo, aggrappandosi all’esteriorità, vede la vita soltanto nel corpo, mentre
la vera vita è nell’anima; quando il corpo viene privato della vita, tutto è
perduto e l’uomo si dispera. Se, invece di concentrare il pensiero
sull’involucro esteriore, lo portasse sulla fonte stessa della vita, sull’anima che
è l’essere reale, che sopravvive a tutto, rimpiangerebbe meno il corpo, causa
di tante miserie e di tanti dolori: ma per arrivare a questo è necessaria una
forza che lo Spirito acquisisce soltanto con la maturità.
La paura della morte è dovuta quindi all’insufficienza delle nozioni sulla vita
futura: ma denota il bisogno di vivere, e il timore che la distruzione del corpo
sia la fine di tutto; è quindi provocata dal segreto desiderio della
sopravvivenza dell’anima, ancora velata dall’incertezza.
La paura si indebolisce via via che si forma la certezza: e scompare quando la
certezza è completa.
Ecco l’aspetto provvidenziale della questione. Era saggio non abbagliare
l’uomo, la cui ragione non era ancora abbastanza forte per sopportare la
prospettiva troppo positiva e troppo seducente di un avvenire che l’avrebbe
indotto a trascurare il presente, necessario per il suo avanzamento materiale e
intellettuale.
5 - Questo stato di cose è mantenuto e prolungato da cause puramente umane
che scompariranno con il progresso. La prima causa è l’aspetto sotto il quale
viene presentata la vita futura; è un aspetto che potrebbe bastare a
intelligenze poco progredite, ma che non può soddisfare le esigenze della
ragione degli uomini capaci di riflettere. «Ci vengono presentati come verità
assolute», essi dicono, «dei principi contraddetti dalla logica e dai dati
positivi della scienza, che quindi non sono affatto verità». Il risultato è che in
taluni nasce l’incredulità, in moltissimi altri una fede mista al dubbio. Per
loro, la vita futura è un’idea vaga, una probabilità più che una certezza
assoluta: vi credono, vorrebbero che fosse così, e nonostante tutto ci dicono:
«E se non fosse così? Il presente è certo e positivo, occupiamocene, per prima
cosa. L’avvenire verrà poi».
«E poi», si dicono ancora, «che cosa è l’anima, in definitiva? E’ un punto, un
atomo, una scintilla, una fiamma? Come si sente? Come vede? Come
percepisce?». Per loro, l’anima non è una realtà effettiva: è un’astrazione. Gli
esseri che sono loro cari, ridotti nel loro pensiero allo stato di atomi, sono
considerati perduti, si può dire, e non hanno più ai loro occhi le qualità per
cui li amavano essi non comprendono né l’amore che può avere una scintilla,
né quello che si può nutrire per essa; e a loro volta, sono ben poco soddisfatti
di venire trasformati in monadi. Ne consegue il ritorno al positivismo della
vita terrestre, che offre qualcosa di più sostanziale. Il numero di quanti sono
dominati da tali pensieri è incalcolabile.
6 - Un’altra ragione che lega alle cose terrene anche quanti credono con la
maggiore fermezza nella vita futura è l’impressione, da loro conservata,
dell’insegnamento ricevuto durante l’infanzia.
Il quadro che ne fa la religione, è doveroso riconoscerlo, non è né affascinante
né consolante. Da una parte, si vedono i contorcimenti dei dannati che
espiano tra le torture e le fiamme eterne gli errori di un momento, perché i
secoli si succedono ai secoli senza speranza di mitigazione né di pietà; e, cosa
ancora più terribile, perché il pentimento è inefficace. Dall’altra parte, le
anime languenti e sofferenti del purgatorio attendono la liberazione dalla
buona volontà dei vivi che pregano o fanno pregare per loro, e non dai loro
propri sforzi per progredire. Queste due categorie costituiscono la stragrande
maggioranza della popolazione dell’altro mondo. Al piano più elevato vi è
quella ristrettissima degli eletti, che per tutta l’eternità godono una
beatitudine contemplativa. Questa inutilità eterna, senza dubbio preferibile al
nulla, è tuttavia di una monotonia fastidiosa. Non a caso si vedono, nei quadri
che rappresentano i beati, figure angeliche che sembrano irradiare noia più
che autentica felicità.
Un simile stato non soddisfa né le aspirazioni, né l’idea istintiva del progresso
che sembra essere la sola compatibile con la felicità assoluta. Si fatica molto a
concepire che il selvaggio ignorante, ottuso nel significato morale del termine,
per il semplice fatto di avere ricevuto il battesimo, sia sullo stesso piano di
colui che è arrivato alle vette più alte della scienza e della morale pratica,
dopo lunghi anni di lavoro. E’ anche meno concepibile che il bimbo morto in
tenera età, senza avere coscienza di se stesso e dei propri atti, goda degli stessi
privilegi grazie ad una cerimonia in cui la sua volontà non ha avuto parte.
Questi pensieri turbano anche i devoti più ferventi se appena appena
incominciano a riflettere.
7 - L’attività progressiva che si svolge su questa terra sarebbe vana per la
felicità futura; la facilità con cui essi credono di acquisire tale felicità per
mezzo di certe pratiche esteriori, la possibilità di comprarla addirittura con il
denaro senza modificare seriamente il carattere e le abitudini, lasciano quindi
intatto tutto il valore delle gioie del mondo. Molti credenti dicono a se stessi
che, siccome il loro avvenire è assicurato dall’osservanza di certe formule, o
da donazioni postume che non li privano di nulla, sarebbe superfluo imporsi
sacrifici o fastidi di qualunque genere per il bene altrui, dato che ci si può
salvare lavorando esclusivamente per sé.
Certo, non tutti la pensano così, poiché vi sono anche splendide eccezioni: ma
non si può negare che questo è il pensiero della stragrande maggioranza,
soprattutto delle masse poco illuminate; e che l’idea generale delle condizioni
per essere felici nell’altro mondo contempla anche l’attaccamento ai beni di
questa terra, e di conseguenza l’egoismo.
8 - Aggiungiamo ancora che, comunemente, tutto contribuisce a far
rimpiangere la vita terrena, e a far temere il passaggio dalla terra al cielo.
La morte è simboleggiata soltanto da cerimonie lugubri che atterriscono
invece di suscitare la speranza. Se ci si rappresenta la morte, la si vede sempre
sotto un aspetto ripugnante, mai come un sonno di transizione; tutti i suoi
simboli ricordano la distruzione del corpo, la mostrano orribile e scheletrita:
nessuno simboleggia l’anima che si libera, radiosa, dai legami terrestri. Il più
felice dei trapassi da questo mondo è accompagnato dalle lamentazioni dei
superstiti, come se a coloro che se ne vanno toccasse la sventura più grande;
si dà loro un eterno addio, come se non li si dovesse rivedere mai più; si
rimpiangono, per loro, le gioie di quaggiù, come se non potessero trovarne di
più grandi. Che sventura, si dice, morire quando si è giovani, ricchi, felici e si
ha davanti a sé un brillante avvenire! L’idea di una condizione più lieta sfiora
appena il pensiero, poiché non ha salde radici. Tutto contribuisce, quindi, a
ispirare il terrore della morte, invece di far nascere la speranza. L’uomo
impiegherà senza dubbio molto tempo a sfatare questi pregiudizi: ma vi
arriverà via via che la sua fede si rafforzerà, via via che si farà un’idea più sana
della vita spirituale.
9 - La comune credenza, inoltre, colloca le anime in regioni a malapena
accessibili al pensiero, nelle quali diventano, in qualche modo, estranee ai
vivi; persino la Chiesa pone tra le anime ed i viventi una barriera invalicabile:
dichiara che ogni rapporto è spezzato, che ogni comunicazione è impossibile.
Se sono all’inferno, ogni speranza di rivederle è perduta per sempre, a meno
che non si vada all’inferno anche noi; se sono tra gli eletti, sono
completamente perdute nella beatitudine contemplativa. Tutto ciò mette tra i
morti e i vivi una tale distanza che si finisce per considerare eterna la
separazione: è per questo che si preferisce avere accanto, a soffrire sulla terra,
gli esseri amati, piuttosto di vederli andarsene, sia pure per salire in cielo. E
inoltre, l’anima che è in cielo, è veramente felice di vedere, ad esempio, suo
figlio, suo padre, sua madre o i suoi amici tormentati dalle fiamme per
l’eternità?

LE RIVELAZIONI DEGLI SPIRITI (Allan Kardec )

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